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Riflessioni di un “gene” mai nato

Ho sempre pensato che scrivere in prima persona del proprio lavoro sarebbe stato un atto di presunzione, poiché nel praticare questa disciplina, non si può che finire a parlar bene di se. Sempre, per 40 anni del mio impegno, ogni volta in cui mi trovavo ad ascoltare da vicino o attraverso vari media altri artisti elogiarsi aulicamente, avevo una contrazione asfittica della mia ulcera sopita. Ebbene, si vede che anche per me è arrivato il momento di acuire malanni altrui. Lo faro dal mio pc, sul mio word (copia in prestito) dal tavolo che guarda verso l’esterno del mio patio, proprio come nel dipinto “Dalla sala”. Lo farò senza false modestie, con l’intento di non essere retorico ma con la certezza di non poterne fare a meno. Oltretutto, incastrato su di una semipoltrona girevole, infagottato di cuscini e quindi assai imbarbarito, per via di un ernia alla settima vertebra, assolutamente inattesa.

Le opere qui pubblicate le ho realizzate più o meno nell’arco degli ultimi dieci anni, non le ho catalogate per genere o per anno, ma cercando di poterne ottenere un transito verbale, una narrazione utile alla lettura, come fosse un racconto, come il visitatore stesse al mio fianco ed io potessi facilitarne la comprensione.

La prima tela, un paio di metri circa, appunto “Dalla sala” è in quella posizione di avanguardia perché è uno dei primi lavori realizzati da quando mi sono trasferito in questa casa nella Sabina Romana, dopo 50 anni di cittadinanza in Roma.

Allora vivevo da solo e qualche cane rimorchiato al mio arrivo. È piena estate, la luce viene da destra ed è mattino, il sole sorge proprio da lì. Sulla tavola un piatto con dei frutti locali, intorno due sedie, una con dei panni ad asciugare, l’altra vuota è quella dove normalmente mi sedevo, questa, appare essere protagonista dell’immagine come attendesse qualcuno a prenderne possesso, ed è rivolta in direzione ovest; oltrepassa le colline ad Ulivi, Cerase e Peschi, inoltrandosi verso occidente, Roma già tumultuosa, per finire su di una riva Tirrenica ancora non risvegliata dai clamori Ferragostani. Sulla colonnina del quadro in primo piano e la bordatura alta ed a destra appaiono subito alcuni motivi che si ritrovano spesso nelle mie pitture. Sono decorazioni istintive, residuo conscio di studi e visioni d’altri luoghi, raramente visitati.

Eccomi in un’altra parte fondamentale dell’abitazione, il mio studio. Enorme, largo, alto e con una sola colonna al centro, tanto che all’inizio vi giravo con l’auto come se dovessi effettuare ogni minuto scarico o carico merce. I vicini mi dicevano: “ma che ci fai con un posto come questo” ed io risposi riempiendolo nel giro di qualche anno con opere che mai avrei potuto realizzare nella mia, pur onorevole, residenza Romana. In questa foto non sto facendo una grande torta con la panna, no. È il particolare di una formatura, un calco in gesso di alcune porzioni della scultura “Il bene e il male” che finita, sarà in ferro e bronzo per un’altezza di circa tre metri.

Qui si può notare nella sua interezza, sono due figure che lottano, un Angelo e un Diavolo. Le parti bianche sono le partiture in gesso che nascondono la plastilina precedentemente modellata. Sotto, una fine rete metallica, che poi scomparirà, è servita a reggere il materiale plastico.

Altra ripresa del mio tentativo di far calchi ovunque. Ma era una necessità. Una volta rimosse le forme, da queste, avrei ricavato una cera, la quale sarebbe andata in fusione, quindi ritornata da me, pulita, lucidata reimpiantata sul nudo ferro, patinata per la conservazione del metallo ad aggiungere una propria consistenza estetica all’opera.

In questa fase si nota meglio l’avanzamento del lavoro. Tutta la modellazione è terminata, siamo nei momenti precedenti la formatura. Porto l’opera all’esterno che pericola e traballa sulle ruote, per farle qualche foto, per girarci intorno agevolmente, fumarmi una sigaretta, e guardarla per bene, cercando di capire se sono un coglione a realizzare una scultura così grande senza che mi sia stata ordinata o se il fine giustifica i mezzi. E il fine quale sarebbe? Beh, ce ne sarebbero una montagna, uno, di mostrare a se stessi che se ne è capaci, che partendo da un disegnino a penna, di un’idea, magari mentre si guardano cavolate in tv, o un tramonto indimenticabile o chissà cosa facendo, si è in grado di metterlo in concreto. Poi c’è la ragione idealistica iconografica, perché due che lottano, perché loro, un Angelo ed un Diavolo? Su questo tenterò di aggiungere qualcosa più avanti.

Dopo l’idea si passa alla realizzazione, non prima di aver fatto qualche disegno sulle proporzioni, le masse, il dislocamento dei volumi e dei pesi, seguendo un modello ingegneristico a tal modo che sia sì, esteticamente interessante ma che pur si regga su se stessa, non vacilli e sia solida alla base ed anche ad un eventuale trasporto. Dunque inizio dal basso, seguendo le proporzioni, taglio il ferro, misuro, ritaglio, batto, piego, saldo, mi allontano, controllo, mi pongo alcuni dubbi che fugherò solo alla fine. Quando la scultura sarà terminata in ogni suo particolare, potrà anche non soddisfare altri per gusto personale, ma non mi si potrà far notare la congruità delle architetture o che le soluzioni trovate non siano giustificate. Questo per me è già molto.

Qui siamo ancora all’aperto, il Diavolo impugna nella mano sinistra una falce con la quale sferra un colpo nella schiena dell’Angelo il quale, si difende con maggiore eleganza, brandendo anch’egli “mancinamente” una grande spada. Il male colpisce alle spalle, il bene si difende sempre frontalmente e non con un falcetto utile ad altri scopi, ma con un’arma convenzionale e sul momento solo intimidatoria. Infatti, l’Angelo pare quasi non avere necessità di sferrare il fendente finale, mentre l’antagonista vilmente, s’abbarbica come bestia inferocita, nel tentativo di sottomettere. La scena è cruenta ma ottimistico ne sembra il destino nonostante la severità dell’immagine, il “bene” pare in una posizione vantaggiosa.

Quando lavoro cerco di organizzare la mia giornata con orari abbastanza rigidi in cui non imperi il mio impegno artistico su tutto, ma vi sia posto per altre attività convenzionali a tutti. Ma non sempre è possibile, ci sono momenti in cui senti il bisogno di accelerare per andare incontro ad una fase successiva che già hai nella mente e che hai desiderio, sotto forma di una bizzarria impellente, di mettere in atto. La libertà, l’impudenza, e la presunzione di esprimere le proprie curiosità, credo sia, una delle motivazioni fondamentali nel permettermi di pianificare, finalizzare e compiere il mio lavoro.

In questo primo piano si palesa la forza della mano dell’Angelo, contrapposta all’arroganza isterica del diavolo, volto teso, ogni piega distorta dall’impegno aggressivo nell’intento di attaccare, anche, mordendo bassamente il polso.

Ritornando alla tecnica usata, in questa foto, si noti bene che questo bianco posto sulla plastilina non è gesso, bensì silicone, difatti le parti con maggiori sottosquadri, o angoli coperti, meritano una gomma che si ponga adeguatamente tra il soggetto e il gesso, che in questo caso sarà una sorta di camicia da collocare sui lati superiori ad irrigidire e contenere i modellati più fragili e delicati. Altre parti che non presentano asperità particolari le riprodurrò ponendovi uno strato dai 2 ai 4 cm di gesso.

Io non sono un grande saldatore, un tecnico ad osservarmi ne uscirebbe con i capelli dritti. Ma per me l’importante è che il pezzo sia ben solido. Quando costruisco spesso sono preso dalla foga di andare avanti e proprio non riesco a soffermarmi alla singola giuntura. È come se stessi disegnando con un grande pennarello nero che magicamente si muta in solido. Ogni segmento è uguale al tratto della mia penna sui cartoncini per i bozzetti. Proprio guardando una mia grafica qualche anno fa, siamo negli anni 90, mi venne l’idea di costruire quelle linee con del ferro, riprodurle, assemblarle, fino a farle rivivere in forma stabile e tridimensionale.

In quel periodo, tra l’altro non avevo grandi disponibilità economiche. Giravo tra gli amici della mia fonderia di riferimento a Roma “gli Anselmi” con modelli di piccole cere tra le mani che hanno un forte costo di fusione, osservavo intorno a me realizzare sagome in ferro, rete e legno che avrebbero sostenuto grandi masse di argilla al solo scopo di consentirne la modellazione. Poi sarebbero, quegli scheletri “Pop” stati smembrati ed estinti. Qualche pezzo riutilizzato, altri, tagliuzzati, informi e ossidati, consegnati al macero. Decisi che invece, collegando la mia manualità grafica alla materia, quel ferro, sarebbe potuto facilmente divenire non più solo un mezzo ma il fine e, fatto allora non trascurabile, ad un prezzo assai contenuto rispetto alle dimensioni delle opere che ho in seguito realizzate. (Nella figura: altro particolare della mano del “male” che stringe la falce)

Questa è la cera del volto del Diavolo, colata nel suo stampo, freddata, estratta, ritoccata a caldo e provata sull’armatura prima di mandarla in fusione bronzea.

Sul tavolo in ferro sono poggiati tutti i pezzi nei rispettivi controstampi che sono, per la tecnica di fusione cui verranno sottoposti, assolutamente necessari. Infatti, non saranno realizzati in cera persa, ma con la fusione cosiddetta “a terra o a staffa” meno nobile della prima ma anche meno dispendiosa e comunque di ottima fattura artistica.

Nell’immagine sopra è ripresa da più posizioni un’altra scultura “La vittoria” realizzata precedentemente al “Bene e il male” nello stato in cui avevo terminato la modellazione.

Ed ecco l’opera nella sua interezza, finita, pronta per essere esposta, beffeggiata, ammirata, accantonata in qualche sgabuzzino, consegnata alla storia di un museo o di un importante collezionista. Ha le braccia alzate, è forte e monumentale muscolarmente. È una guerriera al fine della sua battaglia ed, in contrapposizione con un fisico tanto imponente, ha un volto serio e rilassato, non sconfitto, nobile e riflessivo. La vittoria, se pur meritata e giusta, ha un costo inesprimibile, dovrebbe lasciare ponderata saggezza. In questa scultura, certo non volevo fermarmi alla narrazione di un episodio di guerra ma semmai, rappresentare la parte interiore dell’essere umano di fronte alle sfide della vita.

Pur non essendo io assolutamente fervido credente, seppure con tanto di Cresima e Comunione ricevute da adolescente, e di famiglia fermamente Cattolica, non potevo non essere attratto dal tema della Crocifissione, costruita in questa scultura seguendo il principio - di dubbia etica civile- della condanna e della pena mortale e, la fatica di sopportarne la giustificazione esasperata. Il corpo, nelle mie intenzioni, è mostrato nell’atto di trarre l’ultimo respiro prima della fine. Tendini e muscoli si stendono, il torace si gonfia e si porta avanti alla ricerca di ossigeno, collo e testa lo seguono, la mandibola si apre, le narici divaricate, gli occhi si spingono verso l’esterno, le labbra tremolanti balbettano le ultime parole alla ricerca di un senso che giustifichi la violenza della sorte ricevuta: “Padre, perché proprio io”. Così posta, una frase laica che molti esseri umani avranno detto, pensato o sussurrato alla propria coscienza prima di cedere al proprio ultimo destino.

Un altro tema che più di una volta ho naturalmente colto è la Maternità, Cattolicamente la Madonna con Gesù; laicamente, la madre con il neonato. Il filo che divide queste due letture iconografiche è sottile, spesso lo sono solo le aureole collocate sopra i capi dei protagonisti, che appunto nel mio caso non appaiono. Un modo per universalizzare il tema e rendere omaggio alla donna come primo individuo che si occupa della bellezza, della fatica e della “pericolosità” della nascita di una nuova vita, che la stringe a sé, la protegge quasi a non volerla lasciare andare, già conscia delle difficoltà che il bimbo dovrà affrontare.

Per quanto riguarda la mia scelta di sovra strutturare il ferro con parti in bronzo, più espressamente figurative e solo in certi volumi, è evidente che è una opzione del tutto personale e che giustifico con il rispetto per le linee in metallo create precedentemente. Linee che da se, già chiariscono tutti i concetti di equilibrio, sia tecnico che estetico, proprio come in un disegno a penna su carta. L’applicazione in seguito, delle soluzioni bronzee, costituisce un ampliamento della narrazione, un modo di specificare in maniera popolare l’azione di cui l’opera si fa tramite. L’inserimento di questi tasselli è quindi affatto casuale e la collocazione delle parti da rafforzare inizia si, sempre da un’illuminazione creativa ma soprattutto poi, deve materializzarsi in una fusione e coincidenza degli intenti con la struttura preesistente, nel rispetto dei concetti affrontati.

I “Guerrieri Giapponesi” sono cinque sculture-maschere, qui ne manca una, anch’esse in bronzo e ferro, le modellai la prima volta sul finire degli anni 70 ed allora, non erano supportati da alcuna struttura in metallo. Successivamente, con l’evoluzione dei miei studi, li assemblai nel modo in cui ora sono visibili. Concepii istintivamente quel lavoro come se le teste fossero state rinvenute in qualche antico sito archeologico (ci tengo a precisare che il famoso esercito di terra cotta sepolto in Cina a quei tempi non era ancora stato scoperto) quasi come, se le loro espressioni fossero state improvvisamente bloccate e restituite casualmente alla nostra memoria, questa volta si, in maniera similare a quanto accaduto nei ritrovamenti umani legati alla distruzione di Pompei. Guerrieri Giapponesi perché la forza, la moralità e la compostezza del Samurai nell’affrontare il nemico, bene si adattava al concetto di descrizione di una lotta orribile, eppure necessaria. Certo io non sono un guerrafondaio, decisamente il contrario, quando mi soffermo su certi argomenti è sempre e solo per metaforizzare sulla difficoltà della nostra esistenza la quale, dal nostro primo vagito, non fa che affrontare contraddizioni ed esasperate nefandezze di cui venire a capo, quasi sempre, con la sofferenza delle coscienze più illuminate, o abbandonate o emarginate, troppo spesso con l’ignobile leggerezza degli stolti.

Decisi che tutte le sculture in ferro e bronzo, dopo essere state esposte, fossero rimaste troppo tempo parcheggiate lungo le pareti del mio studio. Ridotte a condizione museale e senza padrone, svegliarono in me l’esigenza di collocarle in un unicum di lettura ardito e complesso. Cominciai a disegnare delle basi che le comprendesse tutte, senza nel frattempo, ancora capire bene dove stavo andando. Fatto un modellino in scala, rintracciati i soliti po’ di denari che sempre servono quando devi definire concretamente una nuova idea. Acquistati tubi Innocenti, morsetti e tavole, scelsi un luogo adatto sul mio terreno. Terminai, con non poca fatica, un’istallazione alta 5m x 4 x 4, circa. Per collocare in cima l’ultimo pezzo “Il bene e il male” ci volle un camion con braccio meccanico.

Vi girai intorno più volte. Osservai da tutti i punti di vista per capire bene cosa avevo combinato. Qualche giorno dopo, sul presto, una mattina finalmente compresi. Avevo assemblato vari umori e generi, legati nel medesimo stile tecnico ed esteriore ma non solo, anche iconografico ed idealistico. Una maternità: la nascita. I guerrieri: forti e forse sconfitti. La vittoria: con le sue faticose contraddizioni. La crocifissione: in versione laica, simbolo di una morte imposta da un tribunale, da propri simili spesso erroneamente, spesso per assopire malumori di coscienze Pilato-nee.

Ed infine, su tutto “Il bene e il male” eterna lotta tra il giusto e l’ingiusto. Allora ricordai dello “Zaratustra” di Nietzsche, ispirato al saggio che scende dal monte per portare la equanime comprensione della vita, slegata da conformismi Teologici, eppure, mistica nel suo essere e divenire.

Questa, a sua volta, raccolta da una religione monoteista esistente in Iran ancor prima dell’Islamismo. Appunto, Zoroastrismo, scientemente incentrato sulla lotta tra “il bene e il male”. Ecco, ero giunto al punto. Quel nome dal suono un po’ retorico e atavico, avrebbe potuto simboleggiare e narrare adeguatamente, in un’unica parola, quei miei lavori così assemblati. Il gruppo, l’istallazione, l’avrei denominata: Zoroastria.

Sia evidente che è molto raro mi capiti di dare un titolo ad una mia opera con tale scempio e travaglio delle mie sinapsi, ma può accadere.

Non è la simulazione di un reperto preistorico, ma semplicemente l’inizio di una nuova scultura, un cavallo. Avevo già affrontato il tema, spesso lavorando direttamente in cera e quindi mandando l’oggetto unico in fusione. La cera permette di costruire e plasmare forme molto delicate e normalmente insostenibili con altri materiali, ma appunto, il pezzo rimane unico. Questa volta volevo realizzare un prototipo classico, di un equino maturo, di razza non precisata, da cui una volta ultimato, avrei ottenuto la forma in silicone e gesso ove colare la cera ed ottenerne degli esemplari utili a modificarne posizione ed espressione, praticamente all’infinito. Per conseguire ciò ho pensato che sarebbe stato meglio modellare della plastilina che ha bisogno però di essere sostenuta, come infatti appare nell’immagine, da un’anima. Questo prototipo è alto circa 30cm e lungo 40, ma si tenga conto che tale tipo di scheletro potrebbe, cambiando la robustezza della struttura e le conseguenti proporzioni, essere realizzato in qualsiasi misura, anche monumentale. Il percorso sarebbe il medesimo in uso come dalle foto.

Il punto primario del lavoro di uno scultore deve essere l’equilibrio. L’oggetto visto da ogni angolazione deve possedere la medesima forza e stabilità. È così che l’inizio della modellazione diviene la parte più affascinante ed al medesimo tempo, critica. Se si vuole ottenere ciò che è nella propria mente, bisogna non accontentarsi di un risultato apparente, ma sottoporsi ad una continua revisione del lavoro, come ci fosse qualche zelante ed inopportuno rompiscatole, sempre pronto a metterci in discussione.

È naturale immaginare che le misure di quest’anima sostenente, debbano essere assolutamente propedeutiche al destino finale della scultura che si vuole ottenere. Una volta iniziata la messa in opera delle masse, non vi possono essere ripensamenti che riguardino posizione e proporzione. Bisogna perciò studiare attentamente l’anatomia del soggetto, disegnarlo molte volte e carpire i segreti di quella natura straordinaria, fino a farli coincidere con la nostra idea.

Per un artista della mia natura e capacità non è troppo complicato giungere ad un risultato del genere, può bastare anche un solo giorno di lavoro, tre o quattro ore la mattina ed altrettante la sera. Ma se nessuno mi corre dietro, ne un committente, ne l’impulso creativo ingovernabile, me la prendo assai più comoda. Osservare con calma l’opera terminata, consente sempre una visione ponderata, utile a conoscerne limiti ed eventuali difetti. Preciso che stiamo parlando di un modello, e non di una performance illuminata ed irrefrenabile da cui, anch’io talvolta sono colto.

Per l’appunto, non si dimentichi che gente tipo, Michelangelo, sosteneva: “il genio è metà dell’opera, il resto è lavoro” si provi ad immaginare il noto scultore che, ad ogni colpo di mazzetta e ferro sul bianco di Carrara, si sentisse mano di Dio o Messo evangelico dell’universo Arte, da mostrare alla Pleba od al committente Mediceo di turno come fosse, sotto l’effetto di un potente allucinogeno.

La costruzione di un “opera d’arte” è il risultato di una profonda meditazione sulle nostre conoscenze, le sensibilità interiori, pregresse e subitanee. Ne può scaturire un’idea straordinaria in un millesimo di secondo, così come, attraverso un tempo necessario al fine, e non quantificabile. In ogni caso, maggiore è l’altezza cognitiva ed espressiva ottenuta, e tanto più questa vivrà la propria esistenza libera dall’ombelico del realizzatore, fino al punto, da essere nel tempo mitizzata o dimenticata a prescindere dal peso sociale, nella sua contemporaneità, dello stesso artista. Questo è il fascino perverso, concludente o meno di un “opera”. Questo il dramma che si fa onirico eppure tangibile del “facitore d’arte” e sopravvive all’ideatore attraverso qualcosa che, una volta terminata, non gli apparterrà più.

Mi è stato commissionato, poi, il cliente vi ha ripensato, capita, il ritratto di un campione. Ben conosciuto da chi ama il calcio Italiano. Il ragazzo ha nella norma espressiva e nelle fattezze, caratteri abbastanza proporzionati, quel tanto che lo caratterizzino rispetto ad altre figure meno fortunate e conosciute. Quando realizzo un ritratto sono tre gli aspetti che devono confluire, soprattutto se su commissione. Primo: la somiglianza. Secondo: la soluzione tecnica. Terzo: centrare ed evidenziare l’interiorità del soggetto. Ciò vale sia nel caso si tratti di personaggio assai rinomato che per il contrario. Volgarmente ci si aspetta dall’artista che sia in grado “Divinamente” di far rivivere il soggetto una seconda volta o, più modernamente, clonato, tanto da poter esclamare: “ Dio mio, sembra vivo!”. Dunque, si pensi in che bel pasticcio ci si mette quando si affronta un lavoro del genere. Nonostante, io di tanto in tanto, mi sottopongo a quanto detto, per scelta. Il tentativo di risolvere le problematiche di cui sopra, sono un allenamento dell’anima e della tecnica che cerco di applicare, nell’ammirazione di una persona, sia per ciò che ha fatto, sia per il come.

Nel caso del ritratto dedicato a questo noto sportivo mi sono ispirato ad immagini di repertorio varie non potendo disporre della complicità sul posto del soggetto, situazione augurabile e che risolverebbe molti problemi. Questo, ripreso nelle foto qui mostrate, è il modello in gesso ottenuto da una calco, sempre di silicone e gesso, a sua volta, formato su di una lavorazione in argilla. La dimensione è leggermente superiore al naturale, una scelta personale per aiutare l’imponenza dell’opera a farsi notare, staccarla dalla normalità e definirla in un contesto artistico e, non solo di effimera comparazione con l’originale. Mi torna alla mente un’altra frase dello scultore Michelangelo, il quale a ritratto terminato, in presenza di un Cardinale, attore e committente dello stesso, alla rimostranza che alcune sue fattezze, secondo questi, non coincidessero al vero, rispose: “Eminenza, chi volete che fra trecento anni ricordi l’esatta forma del vostro naso? Sarà invece il caso che, nella nobiltà dello sguardo e nella tempra del volto, si leggano le esperienze significative della vostra esistenza”. Così, gentilmente immagino, lo zittì e lo rese felice. Michelangelo oltre ad essere geniale, era un colto assai arguto, che sapeva argomentare e difendere le proprie idee, ancor prima che usare mazzetta e scalpello. Non tutti gli artisti, pur notevoli, hanno tali capacità e questo certamente complica il loro lavoro e la loro presenza terrena.

Stessa tecnica e stesso lavoro affrontato da me nel ritratto di Giovanni Paolo II, con una differenza non da poco, e cioè, che non mi fu commissionato altri che da me stesso. Qui, veramente ho dovuto superare tutti i problemi, cui sopra ho accennato, che attengono alla costruzione di una immagine scultorea. L’ho realizzato a caldo emozionale, solo un paio di settimane trascorse, dalla scomparsa del Pontefice. Per rappresentare l’idea che avevo di quest’uomo, forte, intelligente, creativo, politico, pratico, gentile, premuroso, e dalla grande sensibilità interiore e comunicativa, non mi sarebbe bastato conoscerlo per un giorno o due, ma per ben più tempo ed, anche con una certa confidenza. Naturalmente tutto ciò non era rientrato, fino a quel momento, nelle mie possibilità. Non rimaneva che leggere, ascoltare e osservare quanto dagli archivi telematici fosse a disposizione. Cercai di tener conto della grande scia mediatica, che lo aveva senza remore, amato e stimato, ma pure distaccarmene, in modo da ottenere per quanto fosse nelle mie possibilità, un opera che comunicasse anche ad un estraneo della Storia, i modi e le intelligenze del personaggio.

Questi aveva, attraverso vicissitudini ben note, quasi completamente, nel tempo, cambiato espressione e fattezze del volto, adattandole alle difficoltà delle malattie, degli impegni e degli anni trascorsi, quasi ci fosse una perfetta coincidenza tra le proprie esperienze ed i segni estetici del corpo; come se la sua apparenza “superficiale” segnasse nella propria corteccia lignea-umana, il divenire ma anche la narrazione di se. Non potevo rappresentare tutto ciò, dovevo scegliere tra mille immagini e sensazioni ricevute, quanto mi fosse utile, a mostrare la mia percezione, in un’unica fase. Per questo collocai l’idea che avevo dell’uomo, in un periodo atemporale, in cui fosse chiara la maturità del Pontefice in tutti gli aggettivi, brevemente sovra citati, ed in tutte le fasi della sua esistenza, che maggiormente lo avevano visto protagonista necessario. Il resto lo hanno fatto le mie mani, sicure o tremolanti a seconda del mio temperamento momentaneo, dei dubbi e delle certezze che spesso si alternano in me nell’esecuzione di un opera.

La SS. Trinità è il nome della parrocchia nella quale, per ubicazione avrei dovuto crescere. Avrei, perché non ne ero un grande frequentatore, non solo per le mie qualità di fedele ma, soprattutto per difficoltà aggregativa generica. Nonostante ciò, nei primi anni 90, venuto a conoscenza del loro desiderio di realizzare dietro l’altare, un grande dipinto sul tema, che dava nome a quella Chiesa, mi misi d’impegno per tentare di narrare a mio modo, ciò di cui avevano bisogno. Il soggetto “La SS. Trinità” letterariamente è abbastanza chiaro ma, in una realtà pittorica, soprattutto per quanto riguarda “lo Spirito Santo” si complica di certo, almeno per me. Riempii di segni a penna, una giusta quantità di fogli e li assemblai in breve tempo, in un unico cartone. Mossi, in tale rappresentazione, tutti i personaggi, cercando di umanizzarli in un contesto surreale.

Per questo al centro è il Cristo, che attraverso il tragico finale della Passione, si ricongiunge al Padre mentre, una grande quantità di anime già migrate lo stringono, quasi lo assediano, lo implorano, lo inneggiano e non vorrebbero lasciarlo andare definitivamente, verso un cielo per loro irraggiungibile. Il Cristo si sdoppia, si “stripla” in una dubbia quanto efficace “slow motion” filmica, ma il corpo rimane tra i i vari “semplici” che lo attorniano, fermo tra anime in attesa di giudizio o di una migliore collocazione ultra terrena. Il Padre gli tende Michelagelamente la mano. Ma i due paiono non ricongiungersi fisicamente.

Più tardi, troviamo in alto, sulla sinistra del bozzetto, l’immagine del Figlio racchiuso in una assoluta meditazione. Nelle mie intenzioni, è come se fosse stato lì da sempre. Il Figlio, la parte giovane modernamente evoluta del Padre, che non ha bisogno di vedere o toccare per comprendere ma, assurge a ciò attraverso la contemplazione dell’interiore. Un volo di colombe commenta la scena in modo musicale, muovendosi in maniera incerta verso tutte le anime-coscienze, e le metafore insite e protagoniste della scena. È quello lo “Spirito Santo” che, nella mia idea umanizzata di Lui, si trasforma in un simbolo della pace, in un Angelica e sottile presenza, pronta ad una mediazione tra il cielo e la terra, tra ciò che è, e che dovrebbe essere.

Il dipinto doveva essere realizzato, alla mia maniera, colmo di colori che ne accentuassero forza e movimento. Avrebbe dovuto essere compiuto su di una parete di 11m x 4 di altezza. Non so cosa capì il Parroco quando mostrai tutti i miei disegni con, attenzione e deferenza, sacrificati al desiderio primario di eseguire l’opera. Mi pare di ricordare, che non fosse convinto di alcune nudità, di certo impudicamente immemore, che circa 500 anni orsono, tal Papa Clemente VII e subito dopo Paolo III, approvarono senza remore ed inutili pudicizie “Il giudizio universale” del Buonarroti.

Uscii da quella saletta lasciando comunque tutti i bozzetti (che erroneamente mai ripresi) in attesa, disse, che: “ci si pensasse meglio”. A tutt’oggi non mi è dato sapere cosa intendesse per “meglio”.

Il primo a sinistra è uno dei primi disegni eseguiti per la realizzazione de “La vittoria”. Cominciai a tramutare le linee non solo in segmenti utili alla descrizione di un idea, ma assolutamente propedeutici all’uso del ferro. Difatti, è evidente come tenti di descrivere il soggetto, come crescesse con l’uso di piattine o tondini di varie misure, asseconda delle necessità, e come già appaia un perno centrale più robusto, ben utile, a sorreggere la scultura che altrimenti, con la sola lavorazione di cui prima, non potrebbe avere assetto alcuno.

A seguire i primi disegni sugli Angeli da cui poi, realizzerò una serie di sculture in solo bronzo con fusione a cera persa, e dei quali, nelle pagine successive, cercherò di spiegare il perché della mia affezione al tema. Ma ora vorrei soffermarmi, poiché il soggetto qui sopra mostrato pare assai centrato all’impiego, ad un’attenzione alle esigenze e modalità applicative del disegno. Per ciò, devo ringraziare un mio ignaro professore il quale, preparandomi agli esami di terza media, (me la cavavo malissimo a scuola) essendo lui non vedente, mai poteva immaginare che mentre spiegava di Unni, Visigoti ed altri soggetti e materie allora a me indigeribili, riempivo le pagine di quaderni, ad altro uso destinati, con disegnini di macchine da corsa, inventando modelli ultrapiatti e performanti, per velocità supposte solo alla mia immaginazione, scarabocchiandoli fino quasi ad incollarli al foglio successivo. Un anno dopo, una malattia mi bloccò a letto per alcuni mesi.

Quando mi rimisi in piedi avevo la stanza piena di carta riempita di idee, mischiata e sovrapposta agli allora famosi e necessari fascicoli de’ “I maestri del colore”. Ai tanto sospirati e temuti esami di terza media, scambiavo disegni di pere e mele, e nature morte varie, con fruttuosi compitini di matematica. E qui, per il momento mi fermo, per ritornare alla tecnica del disegno.

Con il tempo e gli studi successivi ben presto mi liberai dell’uso della matita. La grafite sporca, i segni mal si sovrappongono gli uni agl’altri, difficilmente raccontano il percorso fatto, stimolano l’uso errato della gomma. Assai meglio, una normalissima bic nera o un pennarello a punta fina. Iniziavo quasi sempre con un tratto strettissimo, appena poggiando lo strumento sulla superficie, con la cura massima nel non spingere e nel rispetto del foglio, come se avessi solo quella possibilità e non magari, come in effetti era, un buon numero di album da riempire.

Tramite quel capello appena visibile, congegnavo, prendevo le distanze, e la dove avvertivo sicurezza e soddisfazione, allora sì insistevo, analizzavo, completavo le forme necessarie all’idea. Dunque per quanto mi riguarda, a parte qualche eccezione, quasi mai ho usato il disegno fine a se stesso, sempre come un mezzo utile ad una chiarificazione, fino al momento, solo idealizzata e memorizzata, una costruzione piacevole e necessaria in se ma soprattutto, a“quell’altro” che è sempre la fase successiva di ogni scoperta.

Dato per scontato che per me ogni scusa è buona per lavorare su di un corpo umano, specie al naturale, cioè nudo. È un modo di studiare una materia che non finisce mai di sorprenderti ed attraverso la quale puoi mostrare e narrare sensazioni, argomentare, idealizzare, brutalizzare, mitizzare, o semplicemente presentare. È così che in uno dei miei tanti momenti di riflessione, in cui alcune mancanze affiorano insistenti, pensai all’Angelo. Qualcuno che c’è e non si vede, in modo Biblico, certo, ma poi anche umanizzato, nudo dagli stereotipi, sublimemente forte e delicato, fragile e sofferente. Non senza sesso ma con ambo i sessi. Non ermafrodito, ma semplicemente unico rappresentante dell’uomo e della donna insiti in se per conoscere, esprimere ed affrontarne con vantaggio esclusivo i limiti. L’Angelo è custode delle nostre nefandezze e disgrazie, aiuta dove necessita, mai giudica e condanna, è in ciò assolutamente ultraterreno. L’essere umano non sa vivere senza confronto, in assenza di male non riconoscerebbe il bene, Lui invece, riesce naturalmente in ciò, ma come può capire noi stessi qualunque, se non prova le nostre felicità e disgrazie, se non ne soffre o gioisce?

Ecco, allora mi metto al lavoro e realizzo il primo modello, sono tutte sculture non grandi, alte circa un 40-50 cm. Ed infatti, come nei miei desideri, è nudo. Gentile ed atletico allo stesso tempo, mostra con chiara evidenza, la difficoltà di essere in quello stato, ancora magnificamente etereo.

Il dramma della scelta anticonformista, quasi anarchica, di mostrarsi in quel modo, doveva essere sottolineato con maggiore forza ed insistenza. Dunque, lo rivestii per palesarne il disagio attraverso le vesti che poi, gli si scompongono addosso, quasi avessero preso ad ardere e bruciarsi con evidente sofferenza fisica e della coscienza. La metamorfosi già completa nella prima immagine, ora si giustifica e tuttavia rimane, quasi in tutte le altre sculture, ben stretto nella sua mano sinistra un piccolo drappo, residuo e testimonianza della “prima” fase di se.

Ne “L’abbraccio dell’Angelo” si manifesta ora con chiarezza, ciò cui si anelava precedentemente. L’Angelo ha nei confronti di un soggetto, si presume, bisognoso o in qualche difficoltà, un gesto di affetto e conforto senza freno inibitorio, totale, sensuale, materno e paterno, unico, riconducibile solo a chi più di noi ha vissuto il peggio ed il meglio del “di noi stessi tutti”, superandolo, ed elargendone ora la linfa positiva nel massimo concetto.

Ne “Il pensiero dell’Angelo” questi pare quasi, serenamente addormentarsi. È invece nella mia idea, una determinata e spoglia meditazione. Così che si accontenta di una piccola seggiola, abbandona se stesso, il corpo, le ali e la coscienza, ad una riflessione interiore e distaccata, necessaria al commento profondo del proprio passato e futuro.

È questo invece il reale “Riposo dell’Angelo” un dormire forte e pesante, un assopimento che lo schiaccia inevitabilmente sotto il peso delle responsabilità, delle scelte, della fatica del ruolo. Per elargire concreta positività, deve farsi carico di ogni male non trascurabile, farlo proprio, ed estinguerlo in un impegnativo e drammatico “nulla” cui egli solo ha l’accesso, ma del quale deve trattenere in se la conoscenza, vivendone in ciò, il fardello dell’incomunicabilità.

Proprio ne “L’Angelo a pezzi” si palesa all’estremo, in una surrealtà angosciante, la perdita del se, fino al punto da sognare che il proprio corpo si scomponga in parti inconciliabili tra loro, come se la scelta di essere ciò che si è fino infondo, risultato di un antagonismo tra segmenti inconciliabili della propria coscienza, prevalesse sul bene, che anelerebbe di tale battaglia esserne il fine. È ancora così, che nell’orrido incubo, il protagonista si rigenera.

E forse un giorno, come ne “L’angelo dalle ali cadute” pagherà il desiderio irrinunciabile alla continua rinascita e metabolizzazione di se. Ma non per punizione Superiore, o Divina. Ma probabilmente, per un’ultima metamorfosi, risultato di un contagio che gli fu indispensabile alla propria esistenza, e che lo vede ora, umanizzarsi come estrema risorsa utile alla conoscenza del proprio contrario.

A sinistra, uno dei tanti bozzetti, spesso fatti su piccoli pezzi di carta ed improvvisati quasi per caso, un appunto in un momento di noia, rotto da un’idea. Le lance che trafiggono il cavallo non sono affatto lì per martirizzarlo, piuttosto a sottolinearne la posizione controversa ed a sorreggerlo, strutturarlo, indicarne una necessità dell’azione. È facilmente intuibile che in quel dato attimo della mia vita, per qualche causa ora indecifrabile, in quella gabbia di pali, dovessi sentirmici io stesso, così come avviene per molte altre opere da me realizzate. Certo è che poi, questi piccoli aneddoti surreali, mi consentono di partorire altri racconti, come ad esempio, le prossime sculture equine che seguono. Quando mostrai la tecnica di messa in opera di un singolo cavallo, ricordai negli scritti precedenti, che in fasi successive quello stesso modello, cambiando posizione e tensione, mi sarebbe tornato utile ad altre idee.

Il “Cavallo in doma” è una di queste. Ad esser sincero non ho mai assistito a tale esercizio in prima persona. Ma è certo che non volevo semplicemente rivelare una pratica. Questa è la ribellione dell’animale, la costrizione non voluta ma imposta ad un cambiamento, la bestia destinata prima o poi alla sottomissione contro la propria natura, come accade a noi stessi, in molte fasi della vita in cui, un ideale non compreso, eppure illuminato, si piega alle esigenze della comunità o, il divulgatore ne viene estromesso.

E ciò che ne rimane è spesso un disastro interiore, uno sdoppiamento della personalità, come in qualche modo tento di evidenziare in “Torsioni equine”

“Cavalla con puledro” è un esempio di maternità e di affetti istintivi nella sua accezione più naturale ed invitante, imitabile ed augurabile. La madre tenta di aiutare e sostenere, avvolgendo con delicatezza e forza, il corpo dell’adolescente in modo quasi umano sebbene, il fisico imponente ed ingombrante non l’aiuti. Lo spinge alla vita, al galoppo, alla conoscenza qualsiasi essa sia, all’esistenza. Il piccolo, torce il lungo collo, in maniera insolita ed esasperata nell’impulso ancora immaturo di accondiscenderla. Un manto, testimone di socialità umana, scivola dal dorso della cavalla, ora orpello superfluo, simbolo della presenza, di un’attenzione terza affettiva.

“Tirato su” è decisamente, ma non semplicemente, un cavallo appeso ad una corda, sostenuto, recuperato, liberato. Anche in questo caso, non era mio intento, sottolineare la mera azione all’interno di un aneddoto. Il peso imponente di questa figura sollevata, la difficoltà della corda nell’agganciarla e supportarla, la lentezza quasi statica in cui avviene il fatto, finisce con il sottolineare il dramma di un tentato riscatto, il desiderio inconscio che in certe occasioni, quella corda sia per noi, e noi stessi i salvati, forse, dall’incontenibile peso di un’angoscia spesso inspiegabile.

Alcuni anni or sono, tra gli altri, mi fu commissionato e così realizzai “Il monumento all’emigrante” in Pescopagano. Un giovane e forte ragazzo, umilmente, eppure decorosamente vestito, s’imbarcherà verso le Americhe. Ha con se una sacca con alcuni strumenti per il lavoro, forse del buon pane ripieno, pochissimi denari, coraggio, speranza, ed intelligenza. Lo sguardo alto si perde nelle distanze, commosso e già nostalgico, una gamba è ancora agganciata da una radice, mentre l’altra si muove decisa verso un nuovo mondo, con la mano destra lo indica e, per il momento, può solo immaginarlo come una grande sfera, essa stessa prodotto di un fondo contadino e familiare, da cui sorprendentemente, nasce come un frutto inatteso, simbolo della continuità del viaggio, anche oltre i confini ordinari, confluenti in una faticosa ed utile futura conoscenza.

“Contrapposizione seria” è un bronzo di cm. 40x60x15, circa. Lo stesso titolo e l’immagine credo che ne spieghino sufficientemente l’azione. Un piccolo e grasso uomo come può contrastare l’altro così imponente ed atletico? È assolutamente impossibile, ma non per chi ha nell’intelletto, nella fantasia e nel coraggio le proprie armi migliori. Così, ciò che è surreale può essere mostrato nella propria fisicità, così, una giocosa narrazione scultorea, può divenire leggenda.

Alto 30 cm. questa è la versione in gesso di un Buddha da me costruito con attenzione esasperata e tempi lunghissimi, confrontati con i miei soliti, assolutamente piuttosto veloci. Per farla breve, vi ho lavorato, (certo facendo anche altre cose) una ventina di giorni.
Volevo essere essenziale, e nello stesso tempo, dettagliato in modo profondo, non casuale, non compiaciuto. V’è qualche motivazione che mi ha spinto ad applicare tale riflessione. Quando avevo 13 anni, ed ero ben lontano dall’immaginare che da adulto mi sarei occupato d’arte, sostava in bella vista sul comò della camera da letto dei miei genitori, un piccolo Buddha in porcellana, smaltato d’un rosso cobalto assai acceso e lucente. Piuttosto grasso e in età adulta, attirava spesso la mia attenzione.

Un giorno ebbi il permesso di prenderlo, per farne una copia in argilla, che non venne mai cotta e rimase in giro per la casa finché, col tempo, non se ne perse traccia. Ricordo che allora ero fiero di quel piccolo lavoro.

In seguito, da professionista, non ripresi più il tema, quasi avessi una sorta di rispetto adulativo e mistico per quell’oggetto, che fosse irripetibile ricostruirne uno pari, come se ciò ne costituisse la profanazione dello stesso, e conseguentemente, di un ricordo intoccabile. Un altro dei motivi che è stato fondamentale alla costruzione dell’opera, era quello che il tema non è poi così scontato come può apparire ad una rapida lettura storico, iconografica. Dovevo capire bene tutto il simbolismo che si nascondeva dietro l’immagine e, naturalmente poi, darne la mia versione. Anche questo Buddha, come il mio Angelo, è nudo, (si vede che la mia blasfemia non ha confini ne territoriali ne teologici) e le motivazioni sono pressoché medesime. È già complicato (oltre che presuntuoso, me ne rendo sempre conto) mostrare la coscienza interiore in una narrazione scultorea, figuriamoci se la vestiamo d’abiti e ricopriamo di simboli.

Rimase, di tutto ciò che avevo appreso, la posizione del corpo ma, con il ginocchio sinistro alzato. Ed anche qui ci fu una banale necessità. Perché, essendo io notoriamente un po’ misantropo, raramente dispongo di modelli dal vero, dunque spesso uso me stesso, certo, non specchiandomi in modo superficiale e narcisistico ma invece, palpandomi i muscoli quando ho un dubbio. Ora, si da il caso, che facciano un cinque anni circa che la mia anca sinistra, in seguito ad un incidente stradale, abbia subito una complicata operazione e che da allora, non sia più voluta tornare a stendersi come le era d’abitudine. Per questo, mi è sembrato giusto renderla protagonista del tema, che doveva nei miei desideri, rispondere fedelmente, ad un racconto verista dell’immagine finale.

Non credo agli artisti di un certo peso, che dicono di non avere un’idea politica precisa. Spesso proprio svicolando da ciò, confermano che più che non avere un’idea, finiscono di fatto per comportarsi in modo politico e, naturalmente, non condivido. Io sono comunista, mi sembra una parola forte, datata e semplificativa, altri nomignoli sono solo slogan propagandistici troppo momentanei per convincermi. Non avendo di meglio, se fossi negli Stati Uniti non potrei che appoggiare i Democratici, in Inghilterra i Laburisti. In Italia come nel resto del mondo, spero che lentamente si affermi un Socialismo Democratico, che non sia imposto da una leadership ristretta, ma da un mutamento della coscienza popolare, che comprenda ciò, come modernizzazione necessaria della società, per la reintegrazione economica dei molti, ed un proporzionale, levigato, assottigliamento del capitalismo.

Questo gioco fotografico sottolinea, nel racconto che tento di offrire del mio lavoro, il passaggio al commento di alcuni dipinti.

A metà degli anni ottanta, alcuni conoscenti mi chiesero di eseguire una performance in una popolare discoteca capitolina. Controvoglia ma goliardicamente portai sul luogo una tela di 200 cm.x150. Al culmine della serata, cominciai a divertirmi un po’ con il pennello ed un solo colore, il terra d’ombra bruciata, che solitamente uso per effettuare schizzi preparatori. Affogato nell’aria per me obsoleta e pasticciata del luogo, attento a preservare un minimo di concentrazione e senza alcuna idea nelle meningi, giunsi a fine nottata avendo effettuato qualcosa di simile a quanto sopra. Nei giorni successivi, nel mio studio aggiunsi colore, ma sempre con una certa svagatezza interiore, non riuscendo a trovare un rapporto convincente con il soggetto trattato. Qui a Palombara Sabina, quindi dopo molti anni, ci lavorai nuovamente, trattandolo esclusivamente come una superficie da mettere a posto, ed in seguito appassionandomi, suppongo, perché ritrovai del rispetto nel ricordo di un evento, che per quanto un po’ superficiale, fosse irripetibile.

Accanto un bozzetto a penna, circa 60cm.x80, uno dei tanti realizzati nei miei viaggi Salgariani in giro per il mondo, cioè stando fermo nella mia abitazione. Ero in India, sulla sponda opposta di un porticciolo di Benares e non potei fare a meno di appuntarne tutte le azioni che vi si svolgevano. In seguito, eseguii un grande dipinto, nell’esigenza di sottolineare con maggiore libertà ed abbondanza di colore, quei fatti.

Da un altro punto di vista invece trattai un soggetto simile al precedente, “India decorata”. Qui non vi sono più le barche dei pescatori intenti ad un’umile ed un po’ desolante pesca. Solo compaiono battelli ben ricolmi di gente, che vanno da una sponda all’altra, zigzagando tra un approdo ed una partenza, in un liquido pullulante di bagnanti che si immergono, si lavano e si rinfrescano nel sacro Gange. Dietro, tra le costruzioni storiche di mattoni intonacati nei più svariati colori, una folla tremolante si accalca, s’incrocia, apre e chiude ombrelloni, vende, svende, cucina piatti locali. Sembra arrangiarsi alla sopravvivenza, e nonostante, trovarne una felicità che s’annega e risorge in un perenne vortice, in un’acqua che riflette il blu del cielo, e nei gialli rossastri che pervadono il luogo, sottolineando un’afa tagliente e poco desiderabile.

Risalendo il lato sud dell’Himalaya in cerca dei luoghi del vivere Buddhista, improvvisamente vidi in lontananza un trambusto sospetto per quelle terre. Era sera e dovevo pur avvicinarmi ad un centro abitato dove passare la notte. Quella straordinaria confusione di grandi fari, gente all’occidentale, macchinari di scena vari, era la lavorazione di un film sulla vita del Buddha, meritava attenzione. Non ebbi difficoltà a fare amicizia con la troupe. Vissi dall’interno, a stretto contatto con loro, tutta la messa in opera di una delle cerimonie Buddhiste presenti nel film. Tornato a Roma avevo con me una buona serie di foto e di sensazioni vivide dedicate a quei fatti. Ci lavorai con attenzione, e trasposi permeato e non dimentico, di una certa devota gratitudine a quella insolita conoscenza mistica, le molte gestualità fisiche e coloristiche, ancora radicate nella mia mente, su di una tela di 200cm.x150, intervenendo sul dipinto in varie fasi e con tonalità e segni assai forti, mano a mano sempre più determinati, e riempiendo gli spazi con decorazioni di memoria istintiva, che dessero volume, consistenza e raccordo al racconto.

Questo “Torso di lei” è uno dei pochi miei disegni eseguito in maturità con il solo scopo di farne un buon evento fine a se stesso. Nonostante, in seguito, ne realizzai un paio di tele. È una matita su legno preparato con uno stucco e reso liscio come un foglio di carta. Su tale superficie, la grafite scorre agevolmente, quasi fosse, un fine e duttile pennello. Si adatta alle morbide increspature e la mano può essere delicata, quanto forte, fino a spezzare il mezzo (ma non è augurabile) essendo il supporto ben rigido. Niente di meglio per esprimere la dolcezza e la carnalità un po’ spudorata di questa figura.

La pittura, l’arte, è un mezzo per comunicare ciò che si è, rispetto alla scultura, apparentemente deficitario, poiché non dispone di tridimensionalità.

In molti casi, soprattutto nella pittura contemporanea (lo storico Argan asseriva che iniziasse sul finire del 1700 per mano di William Turner) questo viene superato dallo spessore del colore. Una tela si può certo osservare in una discreta immagine riprodotta su di un libro od altro, ma non è assolutamente paragonabile, non solo alle sensazioni, ma anche alle impressioni di desiderio tattile che suscitano alcune opere dal vivo. In certi casi, la consistenza della pennellata, la direzione, il volume, non resta un mero metodo descrittivo, ma una comunicazione diretta dell’artista, un parlare a bassa voce o un urlo fisico e della coscienza che vuole essere lì in quel momento e non in altro, si esprime in pochi attimi e ne fa propri tutti i rischi insiti nell’abbandono del metodo rassicurante della tecnica scolastica. Il pericolo è che, in un eccesso del desiderio di comunicazione, si perda il controllo dello strumento o come spesso, ci si copiaccia oltremodo del proprio fare, che si cada nell’ovvio, nel retorico, in un inutile déjà vu. Qui nasce la continua lotta dell’artista “colto” il quale sa bene ciò che fa ed è primo critico di se stesso, ma pure, è preso dal desiderio di esprimersi nel modo più diretto ed efficace in suo possesso. È così che alcune volte, si vive nella conoscenza di non sapere troppo, ed altre, di praticare un eccesso della stessa. Che siano sommi critici d’arte o casuali passanti, nel proprio contemporaneo sarà difficile, se pur accade e come, che qualcuno possa arrogarsi il diritto di un giudizio definitivo sull’opera di un artista. Solo il tempo nel parsimonico passaggio di molte stagioni, delle mode e degli interessi economici ad esse collegati, lascerà traccia di un opinione saggia e spontanea dell’effettivo valore di un opera.

Questo a sinistra, è un gioco di immagini ottenuto attraverso la sovrapposizione di “cosacce” (non sempre bisogna prendersi sul serio) da me già realizzate, pronte per una tela che suppongo, presto metterò in opera. Alcune volte uso il computer ed alcuni simpatici ed efficaci programmi per inventare storie che altrimenti richiederebbero una moltitudine di lavoro superflua al fine. In certi casi pratico questa tecnica con qualche senso di colpa, avendo io, salda provenienza da studi classici, ma presto, cerco di lavarmene la mente e di usare il mezzo in maniera esclusivamente finalizzato ad un idea preesistente, e non suggerita dalle infinite possibilità della macchina.

“Con la corda” è una tela iniziata quando ancora vivevo a Roma e che terminai poi qui a Palombara. Soprattutto rinforzai i colori aggiungendo tonalità più decise e corpose. Inserii poi sullo sfondo in alto, certe libere decorazioni che richiamano talvolta mie escursioni mediorientali, o comunque, di origini etniche ben lontane dalla cultura occidentale. Questa tela, ritrae un corpo maschile recuperato. È una pittura che esprime significati assai simili a quanto precedentemente detto nella descrizione della scultura equina “Tirato su”. In due parole, il corpo massiccio si abbandona ad essere salvato, in un luogo imprecisato, da un soggetto sconosciuto, probabilmente, nella speranza di ritrovare una propria consapevolezza.

“Uno x uno” lo definirei, senza mezzi termini, un tentativo macchinoso ai limiti dell’epilessia, di un auto abbraccio. Difatti, non sono due persone ma solo se stesso che tenta l’impossibile sdoppiamento fisico in mancanza “dell’altro”. Una simulazione costosa per l’interprete immaginato del gesto, frutto di un desiderio in quel momento irrealizzabile e perciò così energico e inconcludente. Il corpo si raggomitola in una posizione incerta, l’anatomia si sgrammatica, il segno vibra incoscientemente e l’azione rimane bloccata in una azzardata ricerca di sentimento che in quel momento, ed in quel modo, non potrà essere ottenuto.

Successivamente ad una tale defaillance non rimane che applicarsi nella meditazione o nella corsa. Un passo possibilmente alato verso un intento migliore, adatto all’espressione della nostra coscienza al momento del fatto. Alato perché staccato da tutto e da tutti, probabilmente, gli stereotipi non amati, non digeriti, le consuntezze interiori difficilmente comprensibili, e per questo, non usabili. Dunque, si accelera all’inverosimile per svestirsene, sperando, la velocità sbrandelli l’involucro inutile, fino a perderlo definitivamente. Inoltre, se non mi fossi ben spiegato, in questa pittura s’avverte che tale azione non è affatto semplice applicazione di una pratica sportiva. I tratti della pennellata si rincorrono senza freni inibiti, sono evidenti e tangibili all’interno di un corpo contenitore e trasportatore delle emozioni, facendo in modo che si mostri come quei colori forti e svariati, siano idee in movimento che non trovano ancora pace e riordino in alcuna parte fisica del soggetto. Questo è diviso in due porzioni nel tentativo, di mostrare che nella difficoltà di un evento simile, può perdersi il contatto con l’alto e con il basso, così che, non si avverta più dove si è effettivamente, e la fisicità, si ponga in un piano posteriore rispetto al desiderio di cambiamento.

Pertanto, il corpo può essere appeso come uno straccio ad un vecchio e soleggiato balcone inidentificabile, o condannato e Crocifisso, da ignoti, da se stessi. Indifferente che sia uomo o donna, l’esigenza della comprensione del nostro inconscio è la medesima, come altrettanto lo sarà la soluzione positiva che ne deriva. Difatti, al contrario della misura apparente e drammatica mostrata in queste ultime opere, quanto più la manovra si mostra difficoltosa, reale, concreta e carnale, tanto più il risultato positivo sarà efficace e permanente. Il dramma è un abito appiccicoso da cui dobbiamo liberarci per conquistare la conoscenza migliore di noi stessi. Spesso l’evento si ripete ed il travaglio ne è una continua evoluzione. Per l’artista cosciente, tale evento è quasi banale ed ovvio, e non finisce mai di raccontarlo, se pure, ciò comporta invece di una rasserenante congiunzione al resto del mondo, un distacco insistente. Ma non c’è altro modo per tentare di esporre la propria verità, che dirla.

“Qualcuno + qualcuno” dopo quanto sopra detto, mi sembra eccessivo tentarne una descrizione. È anche questo un dipinto di dimensioni abbastanza grandi ed il tema, è evidentemente, continuativo di quanto appena espresso nei precedenti.

Nell’opera “Fronte retro” tento di ottenere due risultati. Il primo, una chiusura serena dei temi più duri già affrontati, provando a mostrare che di fatto, dopo una lunga pioggia c’è sempre un buon sole e che, quanto più questa è stata incensante e torva, tanto più la luce sarà gradita e rifocillante. Il secondo, è che raramente traspongo su tela un tema trattato in scultura, al contrario, in questo dipinto realizzato quasi in contemporanea con l’oggetto tridimensionale, ho proprio sentito, dopo tanta abnegazione dedicata al piccolo Buddha in gesso, il desiderio di far trasparire il colore, quasi questo fosse, la materializzazione di una radiografia della coscienza, parte interiore irrealizzabile, di quell’agglomerato di polveri dure, bianche e silenziose.

Come già detto, in certe situazione mi basta assai poco per rimanere affascinato. Il ritratto di questa giovane Afghana, nasce proprio dalla visione di una piccola foto su di un giornale. Di lì germina un desiderio spesso incontenibile di viaggiare nel mistero di un luogo, come di un semplice sguardo. A quel punto, facilmente raggiungo il soggetto, busso alla sua porta, ne percepisco il respiro, le preoccupazioni maldissimulate e le gioie nascoste. Sento l’odore nell’aria che la circonda, i rumori dei carri nella strada polverosa ed assolata, le altre donne anziane che si chiamano in modo a me incomprensibile, ancora cingoli armati che rompono il selciato, il profumo di un riso appena spentolato, i passi zoppi e legnosi dei non bimbi falcidiati; ogni intuizione, incupita dal battito d’ansia di cuori sempre allerti. La vedo ora adolescente, poi matura, infine anziana, leggermente piegata su se stessa, ma sempre avvolta in quel manto di porpora che l’abbraccia e l’accompagna familiarmente. Sento nel delicato prestigio del suo sguardo, la forza di un popolo in difficoltà, ed anche, la dignità che mai abbandona gli animi nobili, il disagio della mancanza di un futuro e mille avi che hanno costruito quella terra prima di lei, che ora passano per le sue vene, senza lasciare alcuna sicurezza, altra traccia di se che non sia il malessere di sbattere con la propria cultura, contro una montagna di detriti occidentalizzati, oramai irrinunciabili. Sulla tempia sinistra appare il terzo occhio, il mio, il vostro, il suo, nell’esigenza di non osservare solo l’esterno di un immagine, ma bussare a quella porta con il coraggio, la fantasia e la presunzione di chi non tema alcuna forma di conoscenza.

L’uso e la scelta del colore è certamente risultato di una intuizione, di uno stato d’animo ma, prima di tutto, della tecnica. Non puoi essere un campione di ciclismo, se non sai prendere bene una curva o destreggiarti su di un terreno sdrucciolevole. Non riuscirai mai ad usare la potenza dei muscoli per arrivare dove vuoi. Il colore è fatto di mille tonalità, ognuna con propria dignità che però mai deve essere sporcata per non svilirne il senso, l’intensità e quindi il fine. Deve essere usato senza remore, eppure controllato. Il pennello non va dove dice lui ma dove il nostro cervello indica. La scelta della superficie che riceverà il dipinto, deve adattarsi all’uso che si vuole della materia. Non uso mai il nero altro che in rarissimi casi, comunque, se devo ottenere un’ombra assolutamente buia, vi mischio del blu assai freddo che rende il nero ancora più profondo. Per scurire un verde (e qualsiasi altro colore) non si aggiunge del nero, lo ingrigirebbe immediatamente, basta aumentare il blu ed usare un giallo già alla fonte dal tono basso. Addentrarsi ulteriormente nei meandri della tecnica pura sarebbe noioso e poco attinente al fine di questi miei scritti, mi rimmergo dunque, nel tentativo di raccontare altre mie opere.

“Il bidone” fa parte di quei dipinti che io pratico in maniera quasi del tutto rilassante, come fosse un hobby, un passatempo, un vezzo distraente. In questo caso avevamo, con il mio vicino, assai più pratico di me, semplicemente raccolto, passato, imbottigliato e messo a sterilizzare circa 300 bottiglie colme di magnifici pomodori del suo campo. L’energico ardere della legna in una giornata ferragostana di calore intenso e la visione statica, eppur viva, di quella colonna di metallo ribollente, aveva fatto del bidone l’assoluto protagonista della scena.

“Vicine regalie” e “Uve” sono due nature morte, quasi una performance del mio lavoro, le ho dipinte in poco più di due ore. Con il passare del tempo, l’acquisizione di una tecnica sempre più istintiva e governata con grande agio, la mia pittura si è assai velocizzata. È stata una scelta spontanea e ponderata poiché la maestria che ho nell’usare il pennello, (non so il cervello…) se applicata con esasperata attenzione finisce per soffermarsi troppo in inutili particolari, con il rischio di essere, fotografica, retorica, di maniera e quanto di più non amo. Così certe volte, quasi mi obbligo a sveltire l’azione, come se qualcuno mi dovesse all’improvviso togliere il soggetto da sotto il naso, ben inteso che, se ciò accadesse sul serio, non esiterei a prenderlo a calci.

Tuttavia, proprio accelerando ci si può stupire della scoperta di un nuovo mondo, dell’esser finalmente padroni nella guida del mezzo e di acquisirne pregi e limiti e mutarli in necessità da amministrare saggiamente. E cosa vi sia di saggio nello sporcare una tela in un modo piuttosto che nell’altro è ben difficile da spiegare, insomma, ciò che è sensato è, più semplicemente, quello che è meglio per noi in quel momento. Cercare di intellettualizzare il proprio lavoro, durante l’esecuzione di un’opera, ne esaspera il contenuto reale, precipitando frequentemente, nel compiacimento e nel superfluo. L’artista deve usare tutte le sue conoscenze culturali nell’idea, ma deve poi essere un imbianchino nell’esecuzione, come uno scultore, semplice scalpellino.

Come in tutte le faccende della vita non è sempre così, devono esserci le eccezioni per confermare la regola, perché solo queste poi ti restituiscono il sapore reale del lavoro, esasperano il percorso e se non sei ottuso riconducono alla normalità. Una delle cose che mi infonde una certa contenuta soddisfazione è riguardare una mia opera qualche giorno dopo averla terminata e scoprirne nuovi, non voluti significati, assolutamente incontestabili nella loro congruenza, proprio come se li avessi desiderati, cercati, organizzati e messi in quella maniera perché fossero protagonisti indiscussi della scena. In quel caso, vuol dire che ero riuscito a togliermi dalla schiena tutti i pesi superflui e quindi, ciò che poi emergeva delle mie capacità, era solo quello che rimaneva. Il sufficiente.

Nelle immagini che seguono sono visualizzati, spero con efficacia, una serie di lavori “evolutivi”. Ho esasperato le mie conoscenze tecniche e la mia sensibilità nella percezione del colore, nel tentativo di andare oltre ciò che la natura mi suggeriva. Tutte le tonalità prendono una strada spinta rispetto alla norma ma devono provare a conservare un attinenza tra se che sia finalizzata, non solo ad un effetto, ma soprattutto ad una ricerca che suggerisca qualcosa di non scoperto, e raccordabile. Un po’ come un musicista che pur sapendo ben usare il pianoforte, comincia a strimpellare dissonanze, accorgendosi che v’è un qualcosa da cui è attirato inspiegabilmente, ed invece di fuggire, chiude la porta del suo studio, stacca il telefono, si concentra, insiste, e non si alza dal seggiolino fino a che non ha trovato una soluzione convincente.

Prima di istallarmi nella nuova abitazione di Palombara Sabina, ho soggiornato sei mesi in un villino, sempre in zona, in località San Giovanni in Argentella. Questo era totalmente immerso tra ulivi secolari che s’inerpicavano sui pendii come alpinisti possenti e nerboruti, o ne discendevano come esperti Indios dell’Amazzonia. Facevo mia, quell’aria salubre, passeggiando tra le loro fronde argentee, fino a che non mi furono familiari ed insostituibili. Di quell’autunno, inverno e primavera ho assorbito senza alcuno sforzo ogni variazione temporale e climatica. Li ho visti riempire di olive i propri rami, come di pesci le reti di fortunati pescatori; grondare acqua temporalesca in giornate buie e silenziose, ribellarsi, irrigidirsi e corroborarsi al vento teso e gelido di gennaio ed ancora, rilassarsi e dilatare dai tronchi venosi le proprie braccia, come chi si stira dopo un lungo sonno a voler toccare il cielo e il sole tiepido di maggio.

Per questo dopo talune escursioni pittoriche neoimpressioniste, non poteva più bastarmi una lettura naturalistica ma, cominciai a conficcarmi ben dentro certe dissonanze coloristiche che mi erano necessarie ad appagare la mia curiosità, ed ampliare al contempo, quel che non si può osservare ad un primo approccio ma che solo la trasposizione dell’intuito è capace di narrare.

Ma il lavoro sarebbe stato troppo lungo e dispendioso e fu così che non resistetti all’uso del mezzo tecnico e freddo rintracciato nel solito programmino del mio pc. Come già detto precedentemente, quando mi sottopongo a certe scelte, due coscienze battagliano al mio interno, l’opzione di accorciare una strada (da sempre uso poco consono al mio impegno) e quella che in fondo, nessuno poteva vietarmene una prova, un tentativo che sarebbe stato del tutto temporale e non una variazione stabile. Doveva essere come andare a lezione da un maestro che fosse in grado di mostrarmi altre soluzioni, spiegarmene l’esistenza e l’eventuale applicazione.

Fotografai alcune opere, le inserii nel computer e cominciai a familiarizzare col mezzo. Le mutazioni ottenibili erano infinite. Bastava pur minimamente, aumentare o diminuire una calibratura, che gli equilibri si perdevano o conquistavano. Era sicuramente un sistema che permetteva di realizzare in pochi minuti, ciò per cui a studio, ci sarebbero volute giornate di lavoro, ripensamenti, molteplici angustie superflue. Mi nascosi per un po’ nell’alibi che tanto, nessuno mi vedeva giocare sullo schermo, come fossi un felice e stupido pittore informatico. Come sempre, le scelte erano tutte mie ed io solo, potevo giudicare cosa stavo complottando ai danni di tanti anni di serio lavoro manuale. Ero sul punto di metaformizzarmi in qualcosa d’altro o solo un passaggio? Certo alle comodità si fa presto ad abituarsi e con ciò, anche alla superficialità, se non si ha uno scopo nobile e ben fermo nella mente che giustifichi l’azione.

E poi, dove rimanevano le nuove opere, nei circuiti stampati dell’hard disk, in un etere impalpabile o tra i segni illeggibili di un piatto e fragile cd di plastica? E perché qualcuno avrebbe dovuto dare un valore innovativo, ammesso lo avesse, alla mia capacità di attuare in pochi secondi variabili infinite allo stesso tema? Beh si, certo, infondo dopo tanto lavoro applicato al caldo ed al freddo del mio studio, sporcandomi e spaccandomi mani e cervella con tubetti, lampi, depressioni e travagli spesso indomabili, avrei meritato un buon dolce, un gelato alla crema, un regalino sotto forma di attenzione, e dunque, rispetto per quel che stavo facendo. Meritato da parte di chi? Io non ho mai lavorato per far vedere quanto sono capace, altri che, a me stesso, ho sempre cercato di stare lontano dai “trucchi” e dalle soluzioni facili. Mi sono immerso senza remore nel pozzo dell’incoscienza creativa con la rettitudine di una linea parallela che si perde nello spazio e che ha nella propria gemella, stabilmente, la concretezza, la razionalità e il dubbio. Dunque, nell’analisi critica delle mie intenzioni e fatti, il compiacimento può essere stato un risultato solo casuale, un errore che ne giustifica il reale andamento. Per questo, quelli che poi sono divenuti immaginifici plotter, rimasero solo un’esperienza di cui, solo qualche anno dopo, capii il significato.

Lasciai presto la casa del fantastico maestro da cui avevo appreso dottrine di informatica applicata al colore e tornai ad insudiciarmi più di quanto non facessi prima. Eppure, ora, in certe stesure pittoriche, sembra io ricordi quelle lezioni. Avvolte il pennello afferra la materia, la mischia precipitosamente e la sbatte sulla tela con la medesima incredibile velocità con la quale usavo il mouse, e la superficie s’illumina come schermo digitale del computer; ma al contrario, sento l’odore degli oli, della trementina e degli essiccanti e, fuori dalla grande porta vetrata del mio studio, avverto respirare l’autunno, ed il fruscio del pennello sulla tela, fiabescamente si fonde con la pioggia che cade sulle foglie di pesco arrossate.

Col tempo mi sono fatto l’idea che, tutto sommato, non devo esser nato per fare l’artista, o quantomeno, potrei essere privo nel mio dna di un piccolo gene, un anellino importantissimo soprattutto nella nostra era, che è mancato a certi, ma che la maggior parte e qualcuno in particolare, ha ben agganciato alla propria scaletta. È il gene assai diffuso oggi, in quasi tutti i campi d’opinione, dell’“ego narcisismo”.

Non vuol essere la mia altro che una ponderata e forse scontata riflessione, nessun vittimismo. Se non fossi misantropizzato, come in effetti sono altro che da me stesso, o dalla casuale disposizione delle mie cellule, non avrei realizzato ciò che ho qui pubblicato, ne scritto racconti e romanzi trattando certi argomenti, e tanto meno, sarei stato rifiutato, si! Ma anche fortemente amato, come sempre mi è capitato.

Quando solo si prospetta la possibilità di mandare in esposizione il mio lavoro, una specie di topo, di cui non riesco a specificare se abbia natura amichevole o astiosa, comincia a mozzicare voracemente parti del mio corpo invisibili. Si accuccia apparentemente silenzioso al mio interno e mi fa compagnia mangiandomi e digerendomi senza lasciar traccia evidente di se. Avvolte mi parla e dice: “cosa vai a fare lì, il tuo lo hai già prodotto. Guardati intorno, vedi quante buone opere hai terminato, e senza l’aiuto di nessuno, tutte da solo. Che necessità hai adesso di portarle in un negozio come fossero frutta e verdura. Quale il motivo per cui sottoporti a giudizi passeggeri e superficiali.

La gente parla parla, davanti a quello che hai fatto, qualcuno cerca onestamente di capire, ma terminato il vernissage tra un sorriso, un bicchiere di spumante, un salatino, certi Durbans irricevibili, e qualche essere riflessivo che forse, è l’unico che veramente si sforza di comprendere, e tu distratto trascuri pure, proprio perché in pieno disagio, cosa ti rimane di quella serata? Ciò che ti appare in quel momento è un considerevole vuoto che non necessitava, che non c’entra nulla con il tuo lavoro. Perché da lì, da quel luogo di transito, più o meno di consumo, può solo giungere nel migliore dei casi del passaggio di denaro.”

Il topo senza lascarmi il tempo di replicare e con rumore di masticazione assai poco dignitoso e sopportabile, biascica ancora: “certo, non è poco, è utile alla tua vita come a quella di tutti, soprattutto, per continuare ad investire nel tuo lavoro. Ma quando questo non avviene, e si ripete per troppo tempo e di quell’esporti rimangono appunto, solo le foto di scena, i cocktails, i Durbans e le carte dei cioccolatini…e poi viene il giorno in cui riempi nuovamente il camion per tornare a casa e non vedi l’ora di rimettere tutto a posto, proprio come era prima, in quella specie di museo non catalogato del tuo studio, poi, non ti viene in mente che sarebbe stato meglio rimanere fermo in uno sciente e saggio surplace?”

Faceva presto a parlare il mio piccolo roditore, lui che se la sarebbe sempre cavata rubacchiando qua e là parti della mia coscienza e deglutendole anche impudicamente, con quei fragori poco piacevoli.

Ora parrebbe, da quanto sopra scritto, che io sia un ricco mantenuto ben capace di filosofeggiare tra le mie sussistenze dorate. Naturalmente non è così, ma quanto detto è pur vero e come sempre da una contraddizione evidente può nascere una semplice verità. Quando ho iniziato a capire che mi sarei occupato per tutta la vita all’intento di produrre cose che non si mangiano, ed avvenne molto presto, avevo lo spirito fresco, pungente e sconsiderato dell’avventuriero. Pensavo che se avessi ben lavorato, prima o poi qualcuno mi avrebbe pagato a sufficienza per sopravvivere onestamente. Non avevo nessuna presunzione di diventare un grande artista, questo è stato sempre e fermamente lontano dalla mia mente. E qui, con il tempo mi è venuto un dubbio, siamo sicuri che un artista possa vivere senza quel gene mancante, “l’ego narcisismo”, che ora riflettendoci bene, mi pare essenziale a supportarlo per rendergli meno affannoso lo sgomitare nel farsi, se merita, e non solo, largo, e trovare un comodo posticino dove abbagliare?

E non solo” si afferma chi è capace, ma chi tira meglio di scherma, chi fa qualche giustificata, per se, vittima necessaria. Io li vedo attraverso i media e qualche volta li ho anche incontrati, quelli arrivati, che ce l’hanno fatta. Sono simpatici, carismatici, sanno ben esprimersi, spesso presenzialisti immancabili e, se per caso te li ritrovi davanti, te lo fanno sentire che ci credono in loro stessi, cazzo! Sono proprio forti! Sicuri, guerrieri indomabili nella loro parte. Solitamente parlano loro e non sanno ascoltare, e se non fai vedere che sai stare al loro passo, ti accantonano come fossi l’ennesimo sfigato inconcludente, colpevole soprattutto, di non aver capito come funziona questo cazzo di mondo. Devono conservare il loro posto e non possono scendere la scala, non gli deve riguardare, ne impietosirsi se si ritrovano vicini a quei tipi cui manca quel gene, quel l’impalpabile surrogato che sostiene solo loro stessi. Anzi, se poi capiscono che tu, passante artista qualunque, hai anche le palle nel tuo lavoro, che sei instancabile nella tua efficacia silenziosa, ti prendono per un insubordinato di questa società, temono, ma non lo ammetteranno mai, che metta in crisi il sistema, che scopra gli altarini, e che loro, non avendo altre armi da esibire, possano naturalmente deperire. Come foglie d’autunno, trovarsi ineluttabilmente ai piedi dell’albero.

“Chi è? Cosa ha fatto? Ma come, non lo sai? Vende, è ricco, è pieno di soldi, è conosciuto! Prova a farlo tu quello che ha fatto lui!”

Già, come non ci avessi provato. Ma non ho il gene.

Ma ho ben cosciente, l’insostenibile leggerezza dell’essere, insostenibile per qualcuno, efficientissima in me. Così, sgomito anche io senza farmi vedere. Combatto una battaglia assai più complicata, tangibile solo nelle mie mani, riscontrabile unicamente al momento del fare, del costruire qualcosa che non c’era e non ci sarebbe mai stato se non mi fossi sciupato altro che per quello. Non ho altre energie da spendere che per il respiro sottile che mi soffia accanto, per rintracciarne il significato, e darne una versione.

A proposito di quanto appena detto e di quanto mostrato in tutto questo viaggio di immagini ed introspezioni collegate al mio lavoro, vorrei tentare di concludere con un’auto citazione, tratta dalla prima pagina del mio ultimo romanzo, cui tengo molto “piacere, mi chiamo, niente” a manifestare e sottolineare, non si fosse ancora compreso, che il prima ed il dopo sono solo concetti surreali e quello che vi poniamo in mezzo, se ha un senso, può essere letto inversamente senza mutarne la sostanza.

Pin tin toc don, cade neve, sorge sole, luna, notte, stelle da acchiappare, venere, marte, vita nuova, mare, cielo, pesci, acqua salata, delfini, piranha, balene, acquari seppelliti, uccelli sparati, pioggia sulla terra, e di fuoco, e di serpenti, e cavalli sfuggenti, e di scimmie mischiate di foresta, vermi e tigri, e leoni vincitori, massacrati, dall’alto di cime d’albero, e ventose, e nuvole, e pressione smisurata, asfittica, perduta, abbacinata, osservata, scambiata, spacciata, e distante, e perversa, e incomprensibile. Ora, costellazioni indistinguibili, rarefatti calori nebulosi, silenzi espansi, scorre via in distacco costante, lampo, fulmine, scocca a terra, muta, vagisce, nasce, cresce, si ripete, s’invidia, s’uccide, si risorge, moltiplica, divide, consuma, spreca, inavidisce, striscia, punta, si erge, coltiva, sdrucciola, stalla, s’atterra, s’imbelletta, s’imputridisce, estingue, lamenta, pente, muore. Scivola su se stesso nel nulla, s’avvolge e riscompare.

Ultime opere

“cose di ferro“

Dopo aver gestito, attesi commensali, ad una piacevole cena. All’interno di una cucina ancora fatiscente, cosparsa di piccole quantità di cibarie varie avanzate.

Rassetto, pulisco il luogo.

Cerco di farmi venire qualche idea. Soprattutto.

Per unire e riciclare in modo nobile ed utile, gli alimenti ancora in condizione d’esser così chiamati. Qualcosa di simile, può accadere nel mio studio.

Qualcosa di simile, può accadere dopo una fase di lavoro, che può durare anche qualche anno.

Può capitare che dopo aver accumulato, saltato e scansato, ogni genere di oggetto ingombrante si ponesse sul mio cammino, mi venga qualche idea.

Proprio su quei resti.

Accade che ricominci a cucinare, in questo caso con pezzi di metallo.

Prima i piccoli e, mano a mano che riesco ad estinguerne la presenza, i grandi. Li ho già guardati per molti mesi, in terra abbandonati, in terra arrugginiti.

Ma ora li ho tirati su, gettati sul tavolo di ferro, e posso cominciare a riconsiderarli e farmi osservare, in modo del tutto diverso.

Pezzi qualsiasi che non devono più rimanere tali.

Che non lo vogliono più. Che stanno riflettendo sulla propria esistenza. Riflettono esattamente come lo faccio io, come lo facciamo tutti.

Viti, bulloni, dadi, roba di ferro che va dai pochi centimetri, a qualche decina.

Questo popolo di emarginati, brutti, inutili e trascurati, chiedono di far parte di un nuovo mondo.

Un mondo, dove esista un luogo che non sia casualmente destinato a loro, dove la necessità di apparire sia conforme ad un utilità per lo meno estetica, posto che, l’estetica non sia l’unica chance che ne governi il futuro.

Dunque, scatto loro una foto con dei piccoli segni di penna su di un foglio di carta ingiallita.

Prendo appunti, li faccio saltare all’interno della superfice, li comincio a contenere nei confini di una forma. Dura pochi minuti, giusto il tempo per non farmi sfuggire un idea improvvisa, quanto incerta.

Accendo la saldatrice.

Attiro, sposto e dispongo gli avanzi del ferro, come avessi mani di calamita. Costruisco senza miti, senza intelletto storico.

Assemblo, saldo, pulisco, lucido. Tiro su il pezzo finito.

Lo rendo stabile ed equilibrato in verticale.

Nei giorni seguenti lo riguarderò spesso, per comprendere se il nuovo oggetto, nasconda sulla propria superficie, se non un cognome, almeno un nome.

Troverò un modo di chiamarlo, ma in fondo, dopo un parto, la cosa importante è che il nascituro sia in salute, e soprattutto che abbia davanti a se un mondo giusto, cosa che io non posso assolutamente garantire, anzi.